LA NASCITA DI MAMMUT

Serie: LA STORIA DI MAMMUT E ALBERTO


In un istituto di ricerche in Siberia inizia un progetto di ingegneria genetica che mira a far nascere dall'utero di un elefantessa indiana un piccolo mammut lanoso.

Era una magnifica giornata di inizio settembre, il sole entrava dalla finestra della cucina in un largo fascio di luce obliqua, accendendo il pulviscolo dell’aria e anche il viso di mia moglie che guardava fuori dalle persiane appena socchiuse, sembrava aver notato qualcuno fuori casa.

«Il postino ha imbucato della posta, vado fuori a ritirarla», disse, mentre prendeva le chiavi della cassetta postale appese al portachiavi. Uscì di casa e quando rientrò, con aria piuttosto sorpresa mi disse: «Pierdomenico, è una lettera indirizzata a te e proviene dalla Siberia!»

Alzai gli occhi dal giornale che stavo leggendo e guardai mia moglie al di sopra degli occhiali che mi porgeva la busta. La presi, la tastai, la voltai e lessi che il mittente era l’ISP, Istituto Siberiano di Paleontologia. Avevo intuito di cosa si potesse trattare, ma a quel punto non mi restava che aprire la busta ed accertarne il contenuto. Aprii la busta, la lessi e dissi:  «si tratta di una lettera che mi invita a lavorare presso l’Istituto Siberiano di Paleontologia, entro e non oltre il 25 settembre, per iniziare con loro una nuova collaborazione. Un paio di mesi prima avevo letto su un giornale che un gruppo di ricercatori aveva trovato, nei ghiacciai del nord della Siberia, un piccolo mammut lanoso, praticamente intatto, e volevano effettuare degli studi di comparazione con i moderni elefanti indiani. Io sono uno zoologo e ho lavorato in India per tre anni, maturando una certa esperienza proprio sugli elefanti indiani, e quindi inviai il mio curriculum.

Appena comunicai il contenuto della lettera a mia moglie, lei ne dedusse che a breve saremmo dovuti partire per la Siberia e la cosa non le piacque affatto.

«Siamo tornati dall’India solo tre mesi fa e ora già ripartiamo. Ma non in un posto qualsiasi del mondo, andremo a vivere in Siberia, dove il freddo è estremo e il sole non si vede mai… io non sono d’accordo!» disse vivamente e in tono di protesta!

«Non è affatto vero che il sole non si vede mai in Siberia, ma poi ti vorrei ricordare, Claretta, che hai sposato uno zoologo; Cosa pensavi, che sarei rimasto per sempre in Italia a studiare passerotti e cinciallegre?»

«Questo no, ma nemmeno avevo mai pensato che un giorno saremmo andati a vivere in Siberia!», ribatté lei delusa.

Discutemmo per un po’ della faccenda e dopo qualche minuto sembrava essersi finalmente ammansita all’idea della partenza. Ci fu un momento di silenzio tra noi, ma poi riprese: «Vedrai che nemmeno Alberto la prenderà bene. Dovrà lasciare i compagni di scuola e dovrà anche abbandonare le lezioni di tiro con l’arco.»

«Claretta, nostro figlio ha iniziato la prima media da una settimana, e non credo che soffrirà più di tanto a lasciare dei compagni di scuola appena conosciuti. Riguardo alle lezioni di tiro con l’arco, Alberto ha imparato tanto in India, qui in Italia avrà fatto sì o no cinque lezioni… Gli troveremo una scuola a Tomsk e se non dovessero esserci scuole per arcieri laggiù, vorrà dire gli troveremo un maestro privato come glielo trovammo in India.»

Quando seppe della partenza per la Siberia, anche Alberto si lamentò, ma alla fine, sia lui che mia moglie si rassegnarono e si prepararono per la partenza. 

Partimmo dall’aeroporto di Fiumicino la mattina del 24 settembre, con un sole che illuminava un cielo color fiordaliso e dopo circa nove ore di viaggio, arrivammo all’aeroporto di Novosibirsk, dove il cielo era lattiginoso e opaco e, pur essendo solo settembre, faceva già molto freddo, e questo la diceva lunga sull’inverno che avremmo dovuto passare. All’aeroporto c’era ad attenderci il dottor Anton Ivanov, un biologo russo che avevo sentito un paio di volte al telefono prima di partire per la Siberia. Gli strinsi la mano, gli presentai anche mia moglie e mio figlio, poi salimmo in macchina e partimmo verso l’ISP, all’interno del quale c’ erano anche gli alloggi dove saremmo stati per i prossimi quattro anni. Percorremmo delle strade laterali, attraverso boschi di conifere, dirigendoci verso Tomsk e dopo circa quattro ore di macchina arrivammo finalmente a destinazione. Il giorno dopo cominciai il mio primo giorno di lavoro e arrivai nell’ ufficio del direttore alle nove in punto, come da appuntamento. Con lui c’erano il dottor Ivanov e un altro biologo americano di nome John Forbes. Anton me li presentò entrambi e subito il direttore cominciò a chiedermi della mia esperienza maturata in India sugli elefanti. Gli raccontai alcuni dettagli della mia esperienza in India e dopo un po’ dissi: «Allora, questo piccolo mammut, si può vedere o no?» 

«Mi dispiace dottor Olivieri, ma il piccolo mammut non è più qui», disse il direttore, «l’abbiamo spostato in un’altra sede provvista di congelatore a bassissime temperature, a circa cinquanta chilometri da qui.»

Rimasi perplesso, non riuscivo a capire di cosa mi sarei dovuto occupare.

«Ci segua, dottor Olivieri!», disse il direttore, mentre si dirigeva verso l’esterno dell’edificio con gli altri due colleghi.

Uscimmo nel cortile dell’edificio e da lì entrammo in un grande capannone che fungeva da stalla per un’elefantessa indiana incinta.

«Dottor Olivieri, lei si dovrà occupare di questa elefantessa, e anche del piccolo che porta in grembo», disse il direttore con chiarezza.

«Non capisco… il dottor Ivanov mi disse che mi sarei dovuto occupare del piccolo mammut trovato nei ghiacciai, e invece… »

«Dottor Olivieri, non sia precipitoso. Il dottor Ivanov le ha sempre detto che lei avrebbe dovuto studiare un piccolo mammut, il resto lo ha dedotto da solo», riprese il direttore con un sorriso antipatico sulla faccia. Feci un gesto con le spalle, come per dire che non ci capivo nulla, mentre guardavo perplesso verso Anton, sperando che mi desse qualche spiegazione.

«Pierdomenico, ti spiego meglio come stanno le cose», disse Anton, «l’elefantessa a momenti partorirà un piccolo mammut. Il dottor Forbes ed io, circa ventidue mesi fa, abbiamo svolto la clonazione, impiantando nell’ovulo di questa elefantessa indiana il materiale genetico del piccolo mammut trovato nel ghiaccio, e ora sta per partorire.»

Finalmente era tutto più chiaro. Mi avvicinai all’elefantessa, le accarezzai incredulo la pancia e mi resi conto che era molto più grande del normale, sembrava quasi volerle esplodere. Non riuscivo a credere ai miei occhi, a momenti avrei visto nascere un mammut, riportato in vita dalle profondità della preistoria. Aspettammo oltre quattro ore, ma l’elefantessa non si decideva a partorire, poi all’improvviso la vedemmo muovere freneticamente la coda, e mentre con gli occhi esprimeva una grande sofferenza per il parto, ad un tratto piegò leggermente le zampe posteriori e, dopo un faticoso travaglio, riuscì finalmente a portare alla luce il piccolo mammut. Lo vedemmo uscire dal corpo della madre e cadere a terra, ancora avvolto nel proprio sacchetto amniotico, insieme a un flusso misto di acqua e sangue. Ma qualcosa sembrava essere andato storto: il piccolo mammut non si muoveva e non respirava, sembrava morto. La madre cominciò a colpirlo a calci. Il direttore mi chiese di intervenire, ma gli spiegai che il parto degli elefanti deve avvenire con meno interferenze possibili da parte dell’uomo. Ci sono stati casi di parti assistiti dopo i quali la madre non si era più occupata del figlio, e quindi la lasciammo eseguire quelle sue manovre senza troppe interferenze. Continuava a dare calci al piccolo pachiderma lanoso e afferrandolo con la sua proboscide lo tirava su e lo rimetteva giù, continuando in quel modo per un po’, quando all’improvviso il cucciolo rinvenne e cominciò a respirare e a muoversi. Cercò di sollevarsi sulle zampe, ma sul principio non ce la faceva e ricascava giù a ogni tentativo. Ci provò diverse volte, finché riuscì finalmente a mettersi in piedi e a muovere i primi passi in questo mondo che non era il suo. Facemmo tutti un grande applauso ed esultammo dalla gioia. L’esperimento era riuscito, avevamo portato alla luce un piccolo mammut lanoso. Dopo oltre ventimila anni di sonno nei ghiacciai siberiani, attraverso l’utero di un’elefantessa indiana, il piccolo mammut trovato ibernato nei ghiacciai era ritornato a vivere nuovamente su questa Terra che nei suoi eterni giri ha visto gli antichi pachidermi estinguersi e quelli moderni prendere il loro posto. Ora erano lì, uno vicino all’altro, l’antico nato dal moderno che insieme si prendevano gioco di anni di evoluzione.

Serie: LA STORIA DI MAMMUT E ALBERTO


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Discussioni

  1. Non amo la faccia “oscura” della scienza, penso che il passato debba essere rispettato. Dare la vita una creatura il cui habitat è completamente diverso dal nostro può portare solo dolore. Un racconto amaro, dove gli interessi vincono sul sentimento. Lo confesso, per un momento ho sperato che il ragazzo in groppa all’elefante fosse Alberto…

  2. Una bella rivisitazione dell’evoluzione della specie.
    Alterarla significa perdere qualcosa come avviene qui anche tragicamente. Forse tutto torna, nel sole abbagliante e cavalcando un mammut, ciò di cui ci siamo presi cura. Mi è piaciuto il finale.