CUERPO DE MUJER (Il postino nero due)

Serie: Al di là di Nwerenkwarụ


Mentre il postino esaminava la porta di entrata nella ricerca di un punto su cui agire per aprirla senza danneggiarla, ebbe la stessa sensazione di disgusto di quado la sua vicina di casa, una vecchia contadina ormai quasi cieca per una malattia cronica, dopo avere ucciso e spennato la gallina, la passava sulla fiamma della stufa a legna, per bruciacchiare le ultime piume rimaste, ma essendo imprecisa per il buio della sua vista, si depilava con il fuoco gli abbondanti peli sparsi sulle sue scarne braccia.

Prima di provare azioni violente decise di saggiare semplicemente la maniglia. La porta cedette senza alcuna resistenza.

La scena era surreale. Un fagotto informe appoggiato a terra delle dimensioni di un grosso sacco, rivestito in parte da pezzi anneriti di non si sa cosa e in parte da qualche cosa simile al cuoio delle borse in conceria, con sparse in mezzo al nero delle bolle di colore giallo arancio. Poco distante una donna stava russando su un divano rosso sangue con la paglia della imbottitura che usciva in più punti. La donna sul divano era coperta solo da un paio di mutande di cotone di fattezza antiquata, colore besciolino ma probabilmente in origine bianco, decisamente abbondanti per i suoi scheletrici fianchi, e un maglione nero sicuramente maschile, anche questo abbondante, che lasciava scoperte gran parte delle braccia e della pancia come se qualcuno avesse cercato di spogliarla e si fosse fermato a metà o forse più probabilmente lei stessa avesse cercato di indossarlo e per qualche difficoltà si fosse fermata a metà.

Il fuoco nel camino si stava spegnendo con ancora tre o quattro tizzoni da cui partiva un filo di fumo rettilineo verso l’alto. Non c’era fumo nell’ambiente ma l’aria era pestilenziale, un odore acre di carne bruciata che prendeva il fiato rendendo difficile la respirazione del postino.

Il postino si accorse che quella specie di sacco sul pavimento vicino al camino lasciava intravedere una sporgenza su un lato che sembrava avesse un impercettibile movimento ritmico. Si avvicinò nella penombra del locale illuminato solo dalla luce che filtrava dalle tendine sudice della vetrata, e vide due occhi lucidi con grosse pupille nere su un fondo intensamente rosa. In quel momento Serafima fu assalita dalla disperazione. Aveva capito che il viaggio accuratamente da lei programmato avrebbe avuto una inaspettata e indesiderata interruzione alla stazione di partenza. Gli occhi si chiusero sconsolati e il movimento ritmico si interruppe. Era troppo stanca ormai.

Erano già due mesi che Serafima dormiva un sonno profondo provocato dai farmaci che le somministravano per non sentire i dolori della pelle scorticata. Costantemente immobile in quel letto, mentre attorno un viavai di gente che si prodigava per lei, e che fino ad ora erano riusciti a trattenerla dalla morte, mentre la sua pelle un po’ qui un po’ là, continuava a morire. Lei non si accorgeva ma nello stesso reparto altri bambini nelle stanze vicine per le più svariate malattie, se ne andavano senza più tornare. Era il reparto dei bambini terminali. Tornava invece ogni volta che era libero dal lavoro di consegna, il postino nero. Con la sua bicicletta, ormai propaggine integrata nel suo corpo come le sue mani e le sue gambe, scendeva dal sobborgo di Zagorany, a 12 chilometri dalla città di Grodno, circa venti minuti di auto dall’ospedale, ma a più di un’ora di pedalate, anche per il fondo delle strade alquanto sconnesso. Il postino aveva mantenuto la sua residenza presso la cascina che apparteneva alla fattoria collettiva intitolata a Kremko a nordovest di Grodno, dove era arrivato dal suo paese natale.

La clinica Sant Humbert era su una collinetta al lato del fiume Nemunas di fronte al monastero francescano.

Quel giorno mentre si dirigeva verso l’ingresso dell’ospedale, osservava l’avvicinarsi di una figura femminile alquanto particolare che gli dava la sensazione di conoscere pur essendo allo stesso tempo certo del contrario. Aveva una media statura, i capelli di un misto cenere e rossiccio, lo sguardo perso fra i ciottoli di porfido dell’ampio cortiletto di ingresso della clinica al limite del muro in mattoni rossi del monastero attiguo. Quando furono quasi a contatto un nauseante odore di unto e di non lavato, gli fece ricordare l’odore del cane randagio che si era introdotto un giorno in casa sua mentre era al mercato, poltrendo sul suo divanoletto per alcune ore prima che lui se ne accorgesse e lo cacciasse. L’odore nauseante era rimasto così appiccicato a tutto l’ambiente, che per due notti aveva dovuto dormire sul pavimento della cucina.

Represse i conati di vomito scatenati da quel abbordo, ed affretto il passo. Non si preoccupò più di tanto di approfondire la sensazione di dejavu. Era di corsa, doveva riprendere il lavoro ma doveva assolutamente vedere Serafima, anche se lei non se ne sarebbe resa conto. Doveva annunciarle che lui stava per partire per l’Armenia. Un amico gli aveva trovato un lavoro più redditizio, e sicuramente non sarebbe più tornato in Bielorussia. Serafima era dietro ad un vetro. La guardava per l’ultima volta, o meglio guardava quello che lui si era costruito nella mente interpretando quello che poteva nascondersi dietro la figura bendata che aveva osservato attentamente per tutto questo tempo.

Lui tutto quello che il fato in persona gli aveva chiesto di fare lo aveva fatto, anche molto recentemente.

Miroslav il camionista aveva caricato oltre il limite consentito il suo vecchio Gaz 52 del 1965, con pesanti casse di birra. Il frontale del camion era tipicamente bianco anche se ormai completamente di un altro colore e con la calandra in più punti arrugginita. La cabina di guida era stata in passato di un altrettanto tipico colore azzurro e ancora ce n’erano i resti. Il cassone era di legno e quindi nel tempo ampiamente danneggiato e riparato più volte, mentre sulla meccanica non si sapeva cosa dire. Doveva consegnare un carico al bar Undergound di via Titova. Il camion dopo aver attraversato il fiume ed essere passato sotto il cavalcavia, aveva iniziato la salita e già il motore aveva cominciato a sbuffare dando inconfondibili segni di esaurimento fisico. In cima alla salita doveva svoltare a destra, dalla via Gornovykh in strada Haharyna. Una bicicletta completamente integrata con un ciclista tutto nero, forse l’unico allora presente in Bielorussia, era proprio sull’angolo che stava svoltando. Il camion aveva perso gran parte della funzione dei freni già da molto tempo, ma in alternativa bastava giocare con il cambio, e Miroslav era diventato abbastanza esperto in quelle strane manipolazioni. Preso alla sprovvista da quell’ostacolo che non si aspettava, il comionista pasticcia con il cambio e la frizione creando le condizioni perché il motore si spegnesse proprio a metà della curva. Ci vollero più di dieci minuti di complessi tentativi prima di riprendere la marcia. I dieci minuti necessari per perfezionare gli incastri dei molti tasselli che il fato aveva previsto.

Stava accellerando mentre ancora imprecava verso l’universo intero, quando una donna magra emaciata, dai capelli fra il cenere ed il rossiccio, con lo sguardo perso sull’asfalto, compare improvvisamente al centro della sua direzione di marcia. Miroslav non prova neanche ad attivare quello che rimane dei freni, tanto chiamati a svolgere la loro opera così all’improvviso, non avrebbero modificato l’esito del destino. Negli occhi di Miroslav è rimasta l’immagine di quella figura improvvisamente sbucata dal nulla nella penombra dell’imbrunire, che all’autista era sembrata un equilibrista funambulo su un cavo pericolosamente oscillante, ma instabilmente disteso sulla terra ferma.

Per quelle quattro ore che aveva atteso di salire in cielo, la mamma di Serafima non aveva sentito alcun male nonostante tutte le ferite e le fratture che si potevano contare sul suo corpo. La quantità di alcool che ingurgitava regolarmente prima di andare a trovare Serafima era tale da poter serenamente senza alcuna sofferenza o ripensamenti, camminare incontro alla morte che si avvicinava. In quelle quattro ore, mentre gli interventi dei medici e infermieri impegnati nel riempirla di cannette da tutte le parti, avevano l’obiettivo di cercare di dissuaderla dal partire, contemporaneamente c’era stato chi con accuratezza delicatezza e precisione l’aveva liberata da tutto quel sudiciume accumulato nel tempo, donandole un aspetto che lei stessa aveva dimenticato.

Quando l’ultima infermiere aveva spento la luce, in quella sala fredda e spoglia, la mamma era semplicemente una radiosa principessa addormentata in attesa del suo principe. Le sue membra nude avevano la morbidezza ed il colore vitale di una diva che si riposa prima del Red Carpet. I suoi seni erano turgidi come non lo erano mai stati, le natiche e le cosce tornite erano di quel bianco ‘Neruda’, in un ‘atteggiamento di abbandono’. ‘Cuerpo de mujer’, ‘Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo’. Solo le unghie rosicchiate fino al sangue erano il ricordo della sua fragilità.

Ora Serafima è completamente sola, e per questo è una notizia da БЕЛАРУСЬ СЕГОДНЯ (Bielorussia Oggi) se pur in dodicesima pagina.

Il giornale sulla scrivania del dottor Giusti è aperto alla dodicesima pagina.

Serie: Al di là di Nwerenkwarụ


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Discussioni

  1. “Ora Serafima è completamente sola, e per questo è una notizia da БЕЛАРУСЬ СЕГОДНЯ (Bielorussia Oggi) se pur in dodicesima pagina.”
    Uno degli aspetti più affascinanti della tua scrittura è la ricercatezza, la capacità di incasellare dettagli davvero particolari