MARYOKU NIARE’ (Il postino nero tre)

Serie: Al di là di Nwerenkwarụ


Pawel Uljabayev era nato in un popoloso quartiere di Panjakent a 60 chilometri da Samarcanda ma nello stato del Tagikistan. Il braccio destro lo aveva perso da piccolo sotto le ruote di un trattore. Ma questo non gli aveva impedito di avere una ricchissima vita sessuale da giovanissimo e una apprezzata vita da trafficante di armi poco meno giovane. Più che trafficante era un ladro di armi che poi rivendeva molto lontano da dove le aveva rubate, in qualsiasi regione del mondo con conflitti. Si era spinto nel centro Africa perché lì si rubava più facilmente per la frammentazione e spesso scarsa organizzazione dei gruppi. In quel periodo faceva i suoi affari fra la Nigeria e l’Angola. La vita lo aveva reso abbastanza spietato, ma quando aveva trovato il postino che dormiva sul cassone del suo camion nei pressi di Baga, al confine con il Ciad, aveva pensato che in quel momento, alla vigilia di un viaggio con meta Berjor in Azerbaigian, due braccia in più aggiunte al suo potevano essere utili. Così al postino Pawel non disse dove era diretto ma solo che gli risparmiava la vita, e questo per sua scelta e sua utilità.

A Baga il postino era arrivato dopo un viaggio a piedi di due mesi precisi, dalle baracche di Mamburso dove era nato. O meglio dalla missione cattolica di Yola dove era cresciuto.

Era il decimo parto della mamma. Forse anche per questo la mamma era morta poco dopo averlo messo al mondo. Lui era vissuto, a differenza di altri sei dei dieci figli a cui la poverina aveva dato la luce, ma che quella luce l’avevano vista solo per poco tempo. Questo era abbastanza normale nella sua regione. Come normale il fatto che morendo la mamma, il padre abbandonasse i quattro figli rimasti al loro destino, che in genere era quello di morire di fame.

Il postino ebbe la fortuna di essere affidato appena nato alle suore della missione di Yola. Era abituale anche questo, infatti erano molti i bambini ospitati. Piccoli, meno piccoli o appena nati, abbandonati là senza ruota degli esposti. Alcuni erano malati e bisognosi di cure o disabili rifiutati dai parenti. Il postino era sanissimo. Suor Maryoku Niaré era la più giovane novizia. Essendo il postino un neonato senza particolari necessità fu affidato a lei.

Maryoku significa Maria Luce in Igbo. In verità Maria Luce di luce ne aveva vista ben poca perché, come una altissima percentuale di bambini Nigeriani, era stata colpita dal Tracoma, un’infezione che digerisce gli occhi rendendoli inutilizzabili. Maria Luce era diventata cieca ancora prima di iniziare a vedere. Nessuna delle immagini immagazzinate nell’area della sua memoria visiva erano reali, ma tutte frutto del suo tatto, del suo olfatto, del suo udito e della sua pura ma fertile immaginazione. Per il postino Maria Luce era la mamma e così l’ha sempre chiamata. Da grande la vedeva bellissima, e in effetti Maria Luce bellissima lo era. Era una ragazza dalla tipica fisionomia e linea fisica nigeriana, forse solo con carnagione leggermente più chiara. Era figlia di una ricca famiglia di industriali agricoli dell’olio di palma. Nonostante fossero già gli anni ottanta non era sfuggita alla malattia che in quel periodo infettava gli occhi di più di sette milioni di nigeriani. Nonostante fosse ricca i suoi occhi si erano bruciati lo stesso e con incredibile rapidità. Ancora, nonostante fosse già l’era moderna, alcuni pregiudizi accecarono le menti dei suoi famigliari che, appena fu possibile, le indicarono con cortesia ma anche con fermezza, la via obbligata del monastero. Aveva sedici anni quando iniziò ad imparare a memoria il rumore, una per una differenti, delle piastrelle di legno del lungo corridoio della nuova missione, ricavata dalla ristrutturazione di un vecchio monastero del XV° secolo.

Il pavimento del corridoio che portava alla biblioteca, era ancora quello originario e le piastrelle malferme per l’età erano per lei una tastiera di un lungo e largo pianoforte.

Come dote al matrimonio con Dio di Maria Luce, la sua famiglia aveva donato al convento una raccolta di più di mille libri scritti in Braille, e per anni quello era stato il suo regno ove leggeva le più svariate storie a piccini e anche a grandi malati o problemati. Così il postino aveva conosciuto il mondo che ora poteva esplorare nella realtà. Lei invece aveva conosciuto l’amore.

Maria Luce era innamorata del postino e solo lui la poteva chiamare ‘nne’ (mamma) perché era come se davvero lo avesse partorito lei. Aveva tre giorni quando lo strinse al petto e sentì le sue piccole labbra cercare disperatamente di succhiare qualche cosa dalla calda e giovane pelle del suo collo. Lei si inebriò a prima vista del suo odore. Sapeva di pulito anche se un sottofondo di urina acre da infezione neonatale banale e di pupu acidula faceva capolino. A “vedere” quegli odori una iniziale impercettibile ansia la aveva turbata, ma sapeva dentro di sè che avrebbe imparato velocemente come interpretare, conoscere e prevedere le condizioni di salute del bimbo da quei banali indizi anche senza vederlo. Forse erano altre le difficoltà. Aveva in poco tempo imparato a cogliere le rose senza pungersi ma non era mai riuscita ad evitare gli schizzi di pipi del postino quando lo cambiava, perché lui da perfetto birichino dirigeva con intenzione come se sapesse che lei non poteva vedere, il suo spruzzo verso il viso di lei a sorpresa un pò quì un pò là. E poi rideva contento. E anche lei rideva strizzando gli occhi con tutta la felicità che aveva nel cuore.

I suoi occhi gonfi e sporgenti, senza pupille e con un gigantesco iride di un improbabile azzurro nebbia, sembrarono ancora più sporgenti e persi nel vuoto, pieni di lacrime, quando il postino le disse che aveva deciso di partire per la sua strada in quel mondo che lei, senza vederlo, gli aveva per tanto tempo raccontato. Allungò le mani nel vuoto davanti a sè, l’espressione di disperazione si accentuò nel non toccare nulla. Non era l’ultima sua marachella, non stava giocando a sfuggirle facendola annaspare nel vuoto come quando era bimbo. Si sottraeva a lei per timore che si accorgesse che anche lui era profondamente in lacrime.

L’ultima notte la trascorsero dormendo stretti uno all’altro come due amanti. Maria Luce tagliava in quel momento il suo cordone ombelicale, ed era dolorosissimo.

Fu posseduta da una depressione devastante che la tenne lontana a lungo dalle funzioni e dal resto della missione. A nulla riuscirono le tenere attenzioni delle consorelle. Improvvisamente all’imbrunire di un giorno di due mesi precisi dopo, come se una luce nuova e inaspettata si fosse accesa nel suo cuore, uscì completamente rasserenata e felicemente dalla sua cella cantando, con la sensazione che qualche cosa di superiore stesse per accadere. Percorse spedita seguendo la musica delle piastrelle il lungo corridoio che portava alla biblioteca, non meravigliandosi della assenza totale di alcun rumore e di alcun odore, nonostante i suoi sensi così affinati. Spalancò la porta della biblioteca raggiante. Quello che non vedeva era davanti a lei.

Il guerrigliero di un gruppo locale stava cercando di spogliare il corpo della vecchia suora, ormai silenziosamente priva di sensi.

Lui, nudo dalla cinta in giù, sembra non rendersi conto che la giovane che le è comparsa davanti, è completamente cieca. Si rende però immediatamente conto che il suo sesso avrà più soddisfazioni da quel corpo solo in parte nascosto dalla veste bianca, e abbandona a terra la sua precedente preda.

MariaLuce terrorizzata da quello che senza capire ha sentito, tenta di scappare ma nella direzione sbagliata.

Sbatte violentemente contro lo stipite della porta. L’immediato dolore è come un coltello che penetra contorcendosi nel suo naso, che inizia subito a sanguinare togliendole il respiro. E’ un dolore insopportabile. Ma si rende presto conto che non è nulla in confronto al dolore in mezzo alle sue gambe che le sembra dividerla in due metà separate. Lei stessa non capisce perchè invece di urlare stringe la bocca in un morso forzato del suo labbro inferiore. Il dolore nel suo ventre aumenta sempre di più, sempre più violento. La veste bianca stracciata è una tela che la mano artistica dell’assatanato ragazzo dipinge in figura astratta di un rosso vivo monocroma. Fino a quando dovrà stringere i denti mentre cerca di memorizzare almeno l’odore del suo cane selvatico? Le viene da vomitare quando sente il calore della lingua maschile infondo alla sua gola, trascinare dietro di se un sapore ed un puzzo di alito fecale. Ma non ha il tempo di provare altre sensazioni. La quantità di sangue che sta perdendo la trascina lentamente nell’oblio. Non si rende conto che il suo capezzolo destro sta per essere completamente staccato a morsi. Riesce per un attimo a concentrare sullo schermo del suo archivio mentale l’immagine delle labbra sorridenti del postino, la sua risata incalzante e l’odore della pipì acidula da piccola infezione infantile. Un attimo dopo non aveva più bisogno di immagini artefatte ma aveva riacquistato la vista completamente, realmente e per sempre.

Serie: Al di là di Nwerenkwarụ


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Discussioni

    1. ma ha avuto il risultato finale di dare la vista a chi non l’aveva mai avuta, rivivendo in un attimo alla velocità di 240 fotogrammi al secondo la vita del postino dalla pipì acidula al sapore dolciastro lacrime alla sua partenza.

  1. “Nessuna delle immagini immagazzinate nell’area della sua memoria visiva erano reali, ma tutte frutto del suo tatto, del suo olfatto, del suo udito e della sua pura ma fertile immaginazione.”
    Ad aprire la mente sono le circostanze in cui si guarda la realtà da un’altra prospettiva. Tanti anni fa ascoltai un intervista ad Andrea Bocelli, gli chiesero cosa vedesse nella sua immaginazione e rispose che essendo cieco dalla nascita non sapeva cosa fosse un’immagine. Provò a spiegare che tipo di suggestioni “visualizzava” nella mente, ma parlarne è come muoversi nell’ambito della sinestesia, poetiche ma difficili da afferrare. Penso che provare a fare uno sforzo di immaginazione e sottrarre delle cose che diamo per scontate possa farci entrare in un’altra realtà ed aprirci la mente. E magari a diventare dei tenori 😃

  2. Ambientazione che rapisce il lettore, descrizioni accurate. Si sofferma con delicate impressioni consegnando vivide immagini.
    “Il pavimento del corridoio che portava alla biblioteca, era ancora quello originario e le piastrelle malferme per l’età erano per lei una tastiera di un lungo e largo pianoforte.”
    Piaciuto.